Allo specchio dell’era Kennedy
Primo piano – Cronaca familiare
La lunga durata di una delle più brevi presidenze degli Stati Uniti è ciò che inizia a esplorare il primo piano della mostra. Una presidenza brutalmente troncata dopo meno di tre anni che ha lasciato un segno profondo nella storia del Paese e del mondo tutto, quella di John F. Kennedy, formatosi politicamente durante quella che era stata invece la presidenza più lunga, ma interrotta a poco dall’inizio del quarto mandato, quella di Franklin Delano Roosevelt, di cui il padre Joseph Kennedy era stato stretto collaboratore, seppur con momenti conflittuali. Ma proprio rispetto a questi momenti si può notare come il figlio, pur restando sempre fedele nell’affetto al padre, interpreti duttilmente le sue posizioni, e il suo primo volume pubblicato, Why England Slept, sposti sottilmente le posizioni del padre, tendenti a frenare le possibilità di intervento nella incombente guerra mondiale, verso quelle che potremmo chiamare le posizioni di un padre spirituale, Winston Churchill, sul cui volume When England Slept il giovane JFK ricalca il proprio titolo: con un gesto che si potrebbe considerare presuntuoso, e molti infatti anche nel partito democratico (per esempio Adlai Stevenson, il candidato perdente alla presidenza contro il repubblicano Eisenhower) considereranno a lungo John Kennedy un presuntuoso rampollo di una famiglia ricca accecata dal piccolo mondo del proprio benessere. Con lo spostamento ideale di quel primo volume rispetto alle posizioni paterne si delineerà già quello che sarà lo stile della sua presidenza: cominciare, talvolta cautamente, altre volte con scelte nette che gli creeranno inimicizie, a interrogarsi sulle cose che vuole apprendere, a confrontarsi con posizioni che gli sono estranee. I Kennedy erano per esempio immersi in quell’odio viscerale del comunismo che più di tutti ha esplicitato il senatore Joseph McCarthy, loro amico di famiglia: e verso il problema cronico del conflitto razziale erano cautissimi nel non accentuare le contraddizioni del partito democratico, su cui un intelligente nemico come Richard M. Nixon avrà buon gioco a dire che era un incollamento di due partiti, i liberal del Nord e i segregazionisti del Sud che non avevano mai perdonato il repubblicano Lincoln. La presidenza JFK darà prova, e con un’accentuata precipitazione nel finale 1963, di volersi confrontare con i problemi reali dell’America e di vedere questa come parte di un mondo di cui andavano capite le ragioni pur potendosene considerare migliori; con uno sforzo mai così netto e aperto nella storia delle presidenze americane, e dunque con una netta inversione rispetto alle presidenze che precedono del democratico Truman e del repubblicano Eisenhower.

In una mostra convinta di trovare nel cinema delle acute chiavi interpretative non inferiori a quelle degli studi storici, non è irrilevante che sia stato un grande cineasta radicale e dunque politicamente lontano come Emile de Antonio (autore del primo film problematico sull’assassinio di JFK) a cogliere nelle sue scelte la libertà di pensiero di un pragmatico (“che è sempre meglio di un idealista perché questo può diventare un fanatico”).
Anche nel nostro piccolo, con questa mostra, abbiamo seguito la lezione di voler imparare. I testi con cui accompagneremo le sezioni di questo e dei piani successivi non vogliono mai offrire delle soluzioni preconfezionate, ma indicare e problematizzare alcune delle tracce perduranti di una troppo breve presidenza.
O’Kennedy’s Ireland: [An Historic Film Documenting President John F. Kennedy’s 4-Day Visit to Ireland in 1963]
(US, 2005) di Phillip E. Pine, voce narrante Robert Vaughn, 72′
L’ultimo anno di presidenza e di vita di JFK è un anno di molti viaggi, prima di quello col tragico appuntamento a Dallas. Il viaggio che lo coinvolge più profondamente è quello nella originaria Irlanda, del quale questo documentario monta dopo oltre 40 anni le riprese: che sono bellissime, di un colore degno di John Ford, e con un JFK insieme commosso e giocoso, quando si dice felice di trovare tanti Kennedy e Fitzgerald in Irlanda dopo che per anni si sentiva dire che erano tutti a Washington.
A proposito di Ford e McCarey, i due massimi cineasti cattolici irlandesi in America, essi all’epoca della sua presidenza vivono una magnifica vecchiaia artistica, che fa parte delle punte del cinema di epoca kennediana anche se non vi erano particolari simpatie umane con questi due conservatori, e oltretutto i Kennedy erano sempre attenti a non sottolineare la propria irlandesità e cattolicità che avrebbe potuto alienare il rapporto con gli americani di altre fedi e origini nazionali: come si vedrà nella campagna elettorale di JFK, che già nella sua attività senatoriale si segnalò votando a sfavore di una rappresentanza diplomatica americana presso il Vaticano, estremizzando così laicamente il rapporto verso la figura papale cui è considerato estraneo ogni potere temporale.
Le immagini e i suoni di questo viaggio, sia che il visitatore si soffermi davanti allo schermo sia che gli arrivino in sottofondo mentre percorre la cronaca familiare dei Kennedy, sono la miglior colonna sonora di questa vicenda umana e politica, e infatti alcune di queste musiche hanno accompagnato anche i funerali di JFK.
Ci si sorprenderà inoltre a sentir evocata la ben reale (e non fantastica come talvolta si equivoca in rete) località delle origini kennediane di Glocca Morra da cui qualche anno dopo proverranno Fred Astaire e Petula Clark nel musical autunnale del giovane Francis Ford Coppola, Finian’s Rainbow (Sulle ali dell’arcobaleno).
La casa dei Kennedy

John Fitzgerald Kennedy, di cui questo piano della mostra segue la storia familiare nel suo intreccio con la storia americana, si rivela anche in questa sintesi della sua vita qualcuno che, pur appartenendo a una famiglia potente (e appartenendovi con piena adesione affettiva), è stato prima di tutto se stesso, e pur venerando i genitori, pur amando il fratello maggiore morto in guerra, ha vissuto un rapporto fortissimo soprattutto col fratello minore Robert: ogni immagine che li ritrae insieme rivela un legame fortissimo, traducentesi anche in collaborazione politica fatta di sensibilità talvolta diverse ma sempre consoni. La presidenza JFK è quindi anche un accenno di quella possibile presidenza RFK, interrotta come l’altra da un gesto violento.
Joseph P. Kennedy

Nato nel 1888 a Boston, Massachusetts, è stato il grande patriarca della famiglia, e ha avuto l’intelligenza di accettare che l’azione politica dei figli non poteva essere un semplice prolungamento delle sue idee conservatrici né del suo solo potere economico e di relazioni sociali, ma doveva includere anche quanto gli era ostico: è rivelatrice la testimonianza di Ted Sorensen, consigliere e “ghost writer” di John, che si sentì dire “lei per me è troppo liberal ma scriva pure per mio figlio”. Vi fu certamente nell’azione di Joseph anche la furbizia di estendere la propria influenza sui territori ideali che osteggiava, ma di fatto ciò lasciò a John quella libertà di maturare, su cui s’imprime anche la presenza matriarcale della madre Rose Kennedy, nata Fitzgerald.
La morte di Joseph, il 18 novembre 1969, sarà dunque davvero la fine dell’era Kennedy.
Jack & Jackie

Vi sono state altre presidenze americane in cui la first lady aveva avuto un ruolo da coprotagonista (per esempio Eleanor Roosevelt) ma con tutta evidenza il rapporto di coppia tra John (detto Jack) F. Kennedy e Jacqueline (detta Jackie) L. Bouvier ha un’aura inarrivabile. Vedremo al terzo piano come lei abbia plasmato la dimensione estetica (parlare di pura mondanità sarebbe davvero superficiale) della presidenza JFK. Le immagini del loro matrimonio e del rapporto coi figli nascono già nel segno della bellezza, quello stesso di cui lei vorrà improntare la dimora presidenziale e la stessa vita culturale del Paese. Sicché si può ben dire che costruzioni mitografiche come quella di Camelot rientrano didascalicamente in questo mondo di dei scesi in terra: e dunque, dopo la morte del fratello, Robert troverà nella consolazione delle letture il poeta prediletto in Eschilo. Non c’è bisogno di gossip supplementari per scoprire che Jack ha avuto innumerevoli donne, che tra queste la vicenda con Marilyn Monroe condivisa col fratello è il segno della tragicità pura, e che Jackie dopo la morte di lui ha avuto un’altra vicenda matrimoniale di alto profilo mondano: ma tutto ciò non fa che evidenziare nel rapporto di Jack e Jackie il luogo della grazia.
La catena dei presidenti
Che ci siano state nel Novecento figure notevoli o quantomeno umanamente non banali alla presidenza degli Stati Uniti evidenzia in JFK un momento centrale. Egli certo condivide coi due presidenti dei conflitti mondiali, Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt, una particolare sensibilità verso la dimensione internazionale: ma in entrambi i casi precedenti essa si era rapportata con una guerra già in atto, e nel primo caso l’azione presidenziale ha dovuto scontare l’inefficacia del proprio “idealismo”. Nel caso di Roosevelt, che certo ha saputo plasmare il proprio Paese, il rilievo internazionale pur da personaggio universalmente amato appare molto meno decisivo rispetto all’azione dell’amico Winston Churchill: lo mostra perfettamente anche il recente Skazka (Fairy Tale – Una fiaba)di Aleksandr Sokurov. I due presidenti che seguono, Truman e Eisenhower, pur appartenendo a partiti opposti (e mai come in questo periodo ferocemente conflittuali), condividono un comune americanocentrismo, quello che dopo JFK segnerà anche Lyndon B. Johnson (un presidente che sfugge alle diffuse caricature d’epoca, che in patria avrebbe voluto essere il grande riformatore degno di Abraham Lincoln e Franklin Delano Roosevelt ma che si è perso nella totale incomprensione della vicenda vietnamita) e Richard M. Nixon (che certo ha saputo chiudere la vicenda vietnamita e aprire una nuova epoca nei rapporti con URSS e Cina, ma come se ciò fosse puro sfondo della dimensione di potere nazionale, come un calcolo senza un briciolo della pietas che appare muovere JFK).

C’è ormai una diffusa tendenza storiografica che studia i corpi dei re e i corpi dei papi, ma la vicenda dei presidenti americani si presta a uno studio altrettanto rivelatore. E qui JFK condivide con Roosevelt l’esperienza di un corpo colpito dal male su cui riesce a sovrapporre un’immagine di vitalità. Roosevelt fu fiero di questo “fake” e infatti disse a Welles “noi due siamo i maggiori attori americani”. JFK, nelle sue sofferenze, sorte nelle esperienze di guerra, quotidianamente curate con grande fatica (quella che si rivela in pieno nel bellissimo Crisis di Robert Drew, dove la crisi percepibile a ogni fotogramma è anche quella della lotta di JFK contro il dolore fisico), non ha mai avuto il tempo di sentirsi un trionfatore. Troppo acuta e quotidiana la necessità di difendere la propria vita, finché una pallottola assassina ne compì lo sfregio estremo di strappare dal suo corpo una parte del cervello, che Jackie (in quello che appare uno dei gesti più spontaneamente pietosi mai visti) si lancia come a raccogliere affinché quel corpo non si spezzi.
Una campagna elettorale epocale

Quella che porta all’elezione a presidente di JFK è una campagna elettorale che segna delle novità assolute. Per la prima volta la televisione è protagonista, non più complementare alla radio: infatti, sia nelle primarie con Humphrey che nei dibattiti con Nixon la vittoria dell’immagine di Kennedy è netta, e certo influisce sulla scelta delle urne. Oggi ci specchiamo nell’era Kennedy anche in questo, ma oggi tutto è divenuto immagine ed essa non ha più il carattere sorgivo che ebbe con l’apparizione dei primi film di Louis Lumière e Luca Comerio, carattere sorgivo che si replica con l’apparire della televisione. Beninteso Humphrey e Nixon danno la sensazione di essere sinceri, ma ciò non basta all’immagine: Kennedy è uno che si vuole continuare a guardare e ascoltare, gli altri dopo un po’ annoiano. Ed ecco allora che il carattere innovativo di questa campagna è in piena sintonia con le novità che preannunciano gli anni ’60: le nouvelle vague e il cinema diretto, la grande musica rock, l’arte pop di Andy Warhol e di altri innovatori, le nuove forme di teatro e di danza… Tutto questo John e Jackie Kennedy l’hanno capito quanto Marshall McLuhan, e infatti si affidano alla Robert Drew and Associates per ben quattro film: quello appunto sulle primarie con Humphrey, il grande Crisis, un cortometraggio sulla nuova frontiera (e come non pensare che la nuova frontiera è proprio l’immagine cinetelevisiva) e il film sui funerali del presidente. Se questo non può che registrare un esito perdente, quanto precedeva era nel segno di una vitalità che forse solo Roosevelt aveva saputo trasmettere prima di allora a tutta una nazione.
PT 109
La motosilurante il cui nome sintetizza ormai l’esperienza nella seconda guerra mondiale di JFK non deve far dimenticare che questa esperienza ha avuto molti risvolti, ed è stata da lui vissuta come un’esperienza di formazione, in quello spirito del dovere e del sacrificio cui Kennedy toglie le impronte retoriche per confrontarsi col sacrificio familiare del fratello che muore in guerra e con quel senso che egli sintetizzerà nel discorso presidenziale inaugurale: “chiedetevi cosa potete fare per il vostro Paese”. Ma vi sono altre due cose essenziali che l’esperienza di guerra gli apprende: scoprire che vi sono altri popoli che combattono a pari dignità, come i guerriglieri birmani; e infine scoprire che la guerra, anche quando non uccide come col fratello di cui a un certo punto era sembrato che egli dovesse subire la stessa sorte ma “miracolosamente” vi sopravvisse, lascia ferite per tutta la vita. E infatti per tutta la vita il suo corpo, che pubblicamente trasmetteva spirito giovanile e seduttivo, dovrà curarsi quotidianamente.
Nell’anno finale 1963 la Warner Bros. decide di trarre un film omonimo dal libro di Robert J. Donovan sull’esperienza bellica di JFK, PT 109. La Warner è stata spesso nella storia del cinema americano particolarmente sensibile alla dimensione sociale e ai rapporti con la politica del momento, realizzando molti film notevoli ma anche molti altri film che restano solo il segno di un’epoca (da quella rooseveltiana a quella del maccartismo). Anche se la scelta del protagonista Cliff Robertson è felice (poco dopo sarà protagonista di uno dei più importanti film post kennediani, The Best Man, in italiano L’amaro sapore del potere, scritto da Gore Vidal e diretto da Franklin J. Schaffner, che con Frankenheimer e Lumet è tra i cineasti di formazione televisiva più sensibili all’epoca kennediana), il film viene purtroppo affidato a un altro regista di formazione televisiva ma di inesistente personalità, Leslie H. Martinson. Questo pessimo omaggio a JFK esce a Boston nel giugno 1963, e pochi giorni dopo apre il festival della città di cui egli si era eletto cittadino, Berlino. In Italia sarà distribuito a settembre ma molti lo vedranno dopo la morte di JFK, con l’imbarazzo di trovarsi di fronte a qualcosa di triste più per debolezza estetica che per forza tragica.
Mentre si dorme / Perché si dorme

Il 30 settembre 1938 l’allora primo ministro britannico Neville Chamberlain, firma con Adolf Hitler (e Mussolini e Daladier) il da lui fortemente voluto “patto di Monaco”, che avrebbe dovuto dare pace all’Europa chiudendo un occhio sulle espansioni tedesche a Est: e il sorriso compiaciuto con cui Chamberlain lo annuncia al mondo resterà nei documentari come l’immagine dell’autoinganno per eccellenza. Il futuro primo ministro inglese Winston Churchill, di lì a poco principale stratega della guerra antinazista, non l’ha ancora delineata ma il suo libro del 1938 While England Slept: A Survey of World Affairs,1932-1938 è la manifestazione più evidente di un’inquietudine. Singolarmente, mentre Joseph Kennedy, collaboratore di Roosevelt e suo ambasciatore nel Regno Unito, viene considerato non estraneo a simpatie hitleriane, egli promuove la trasformazione della tesi del figlio (accolta “magna cum laude”) in volume, che doveva intitolarsi Appeasement at Munich ma che prende nella prima edizione del 1940 un titolo visibilmente calcato su quello di Churchill, e quasi con una sottolineatura di maggior consapevolezza: Why England Slept (senza punto interrogativo e dunque promettendo una risposta più che ponendo una domanda).
Questo volume, come il successivo, sarà ripubblicato da Kennedy con una nuova introduzione all’epoca della sua presidenza.
La mostra espone la prima edizione del libro di Churchill e, completo di sovracoperta, quella di Kennedy, insieme al reprint dell’edizione rivista.
I ritratti e il coraggio
Il secondo volume pubblicato in vita da JFK allora senatore e che segna gli inizi della collaborazione ai testi da parte di Ted Sorensen, Profiles in Courage, esce in prima edizione (qui esposta) nel 1955. Si tratta di un altro volume storiograficamente ambizioso: una scelta di ritratti di senatori americani, capaci di scelte “coraggiose”, spesso controverse e spiazzanti. Il volume appare già un’autobiografia del proprio pragmatismo. Significativamente entrambi i volumi kennediani vanno alla ricerca di maestri ponendosi come loro dialettico erede. Ma anche se il libro ottiene nel 1957 il Premio Pulitzer l’accoglienza è divisa, soprattutto da parte di chi nel Partito Democratico guarda a Kennedy con sospetto (Eleanor Roosevelt è tranchante: “troppi ritratti e poco coraggio”).

Degli otto saggi compresi nel volume ci appaiono particolarmente belli i primi due, riguardanti proprio i due senatori del Massachusetts che è ora rappresentato da JFK, John Quincy Adams e Daniel Webster. Il capolavoro è probabilmente il primo testo, dedicato a colui che diventerà presidente degli Stati Uniti e il cui padre, John Adams, era già alla vicepresidenza del primo presidente Washington per poi succedergli come secondo presidente. La famiglia degli Adams, alle origini dell’indipendenza statunitense, può essere vista come uno specchio (cronologicamente più esteso, quattro generazioni che includono anche lo storico Henry Adams) di ciò che ambisce diventare nella storia degli USA la famiglia Kennedy (uno specchio più pertinente della famiglia Roosevelt, fatta di individualità più che di legami familiari: Theodore, Franklin Delano e Eleanor). Appare perciò particolarmente commovente, proprio per il capitolo Adams, la lettura integrale del volume di Kennedy (per audiocassetta e poi in CD) dello sfortunato figlio John Jr. Negli Adams JFK trova uno specchio di figure fragili, talvolta di difficile transizione verso i Jefferson e i Lincoln, in un destino presidenziale vulnerabile che il coraggio di John Quincy Adams ha saputo esorcizzare.
Il fantasma Sorensen
JFK ha saputo circondarsi di collaboratori intelligenti, che si riunivano quotidianamente con lui (riunioni di cui era solo occasionale ospite il vicepresidente Johnson). Se il collaboratore più stretto rimane il fratello Bob anche altri si fanno notare per intelligenza e lealtà, come il portavoce Pierre Salinger, mentre la figura di Robert McNamara, che con Dean Rusk impronta la politica estera, sarà dopo la morte di JFK responsabile dell’escalation vietnamita per poi fuoriuscirne in una ininfluente crisi di coscienza. La figura intellettualmente più alta nello staff è Ted Sorensen, “liberal estremo” che sosterrà poi Obama come il presidente più nel solco dei Kennedy.

JFK lo coinvolge già da senatore nella collaborazione alla scrittura dei Profiles in Courage e dei suoi stessi discorsi. Un Kennedy ancora molto conservatore rispetto al suo percorso da presidente, sente il bisogno di confrontarsi, senza celare le differenze, con un liberal dichiarato.
Di Sorensen esponiamo tre saggi fondamentali, in edizione italiana i due che fanno il bilancio del kennedismo, e in originale la sua autobiografia politica, insieme a uno studio su di lui che ricostruisce quello che acutamente viene intitolato un “ghost”: non solo “writer” bensì il fantasma ritornante di Kennedy.
Afroamericani e questione razziale
La guerra del Vietnam che diventa, alla fine degli anni ’60, il tema centrale negli USA e nel mondo, è stata definita da alcuni storici come una seconda guerra civile americana. Ma sono gli interi anni ’60, sin dalla presidenza kennediana, a dover fare i conti con le questioni irrisolte della guerra civile. Con la replica alquanto beffarda che, appressandosi il centenario dell’uccisione di Lincoln nel 1965, un altro vicepresidente di nome Johnson, come il successore di Lincoln, prende nel 1963 il posto dell’assassinato JFK.

La questione razziale aveva percorso tutta la storia americana ma negli anni ’60 essa si intreccia più strettamente che mai con due componenti, quella morale (per cui la personalità più alta di questi anni, Martin Luther King, Jr., arriverà ad abbracciare l’opposizione alla guerra nel Vietnam dicendo di non accettare la segregazione della propria coscienza morale) e la componente sociale. Non si vogliono qui sminuire né gli aspetti culturali né quelli religiosi. Tuttavia sempre più negli anni ’60, e con crescenti radicalizzazioni che rifiutano la parola d’ordine dell’integrazione, sono i territori dell’emarginazione, del sottoproletariato e del proletariato non cooptato ad aristocrazia operaia a saldarsi con le rivolte afroamericane.
Rispetto all’emergere di tale urgenza forse solo il tardo Bob Kennedy, nella sua breve e funestata campagna elettorale, comincerà a capire l’intreccio di questi temi, probabilmente favorito dall’esperienza da supermagistrato scontrantesi coi vari Jimmy Hoffa e altri costruttori di aristocrazie operaie. Oltre che imparando a conoscere la più povera popolazione afroamericana egli allarga l’attenzione ai latini, diventando amico dell’attivista sociale Cesar Chavez.
Invece alla presidenza JFK i due fratelli arrivarono alquanto impreparati, preoccupati piuttosto di ritardare l’esplodere del tema razziale. Ragione ulteriore per vedere la presidenza JFK come un’esperienza di formazione, brutalmente interrotta.
Quello che segue è un grande paradosso: un presidente, Lyndon B. Johnson, talmente concentrato sul progetto di una “great society” da riuscire a far passare la più ampia e innovativa legislazione sui temi dell’integrazione e del welfare, però dimenticando le zone di emarginazione in America e trattando il Vietnam come una Corea bis dove poter fermare il comunismo.
Alabama
Il momento in cui la presidenza Kennedy si espone maggiormente sulla questione razziale (e che prelude ai suoi tardi discorsi sull’integrazione) è l’episodio dell’ingresso all’Università di Alabama, l’11 giugno 1963, degli studenti afroamericani Vivian Malone e James Hood, contro la volontà del governatore segregazionista George Wallace, e con un’abile regia orchestrata da John e Robert Kennedy ed eseguita dal procuratore generale Nicholas Katzenbach. L’evento, oltre che da servizi fotografici e telegiornalistici, è documentato soprattutto dal film di Robert Drew Crisis: Behind a Presidential Commitment, che è uno dei massimi gesti estetici della politica kennediana. Drew dice che le immagini del film smentiscono le illazioni che l’episodio appaia una messa in scena. E ha ragione, soprattutto i volti di John e Robert Kennedy lasciano trapelare l’incertezza. Allo stesso tempo però tutti in questo film agiscono da grandi attori; anche il “cattivo” Wallace ma soprattutto questi due studenti neri magnifici, e lei in particolare è bellissima. Katzenbach poi è simpatico ed efficace. Un casting perfetto da grande film americano: e tuttavia sentiamo continuamente che ciò che avviene è reale, e che si tratta di un momento, di un problema la cui soluzione presenta molte incertezze.
Diritti delle donne
Una presidenza che ha riconosciuto alle donne una presenza centrale non poteva non confrontarsi con l’azione delle attiviste femminili e con l’esigenza di una legislazione all’altezza dei tempi: anche se sul piano legislativo sarà anche qui Lyndon B. Johnson a dare una sistemazione organica.

Ma va registrato l’impegno di JFK che traspare dalla foto di questo incontro e dal documento esposti.
Ricordando anche qui l’eco innovativa del cinema americano coevo. E sorprendentemente è anche qui l’altro conservatore irlandese, Leo McCarey, a segnare già verso la fine dell’epoca Eisenhower il passaggio a una società in cui si smarriscono i centri del potere: ci riferiamo a Rally ’Round the Flag, Boys! (Missili in giardino), in cui le donne demoliscono ecologicamente l’espansione militare nei più remoti territori del paese.
22 novembre 1963

Probabilmente tra gli stati d’animodi chi dopo 60 anni si rivolge all’assassinio di JFK s’impone lo stesso di chi allora apprese la notizia in diretta: un senso d’incredulità. Per poche ore si sperò ancora che la vittima si salvasse, anche per smentire che il Paese di cui era presidente potesse diventare ostaggio di un gesto, di chiunque esso fosse stato. Non solo la speranza si vanificò in breve tempo ma l’incredulità crebbe quando il presunto autore del gesto venne a sua volta ucciso da un presunto vendicatore. La sceneggiatura di un film che seguisse questo canovaccio sarebbe apparsa poco credibile.
Eppure il cinema americano di quegli anni sentiva che qualcosa di incontrollabile era nell’aria, anticipato dai due romanzi a cui si ispirarono i due fatali film diretti da John Frankenheimer: The Manchurian Candidate (1959) di Richard Condon che divenne nel 1962 il film omonimo con titolo italiano Va e uccidi, e Seven Days in May (1962) di Fletcher Krebel e Charles W. Bailey II la cui omonima versione cinematografica fu varata sin dall’inizio del 1963, girata con Kennedy in vita ma completata con finale modificato nel 1964 (Sette giorni a maggio).

JFK aveva letto i romanzi e ne era inquietato. Se nel primo si trattava del tentato omicidio di un candidato presidente, con manovrato esecutore un reduce dalla guerra di Corea, nel secondo era la stessa capacità della democrazia americana, e del suo presidente, di difendersi da un colpo di stato militare, a essere messa in dubbio.
Per la realizzazione del primo film i produttori e il protagonista kennediano Frank Sinatra consultarono più volte la Casa Bianca, per evitare che alcuni aspetti “anticomunisti” della storia ostacolassero la ricerca del dialogo con l’Unione Sovietica, e la Casa Bianca non avanzò richieste di modifica. Dopo l’assassinio di JFK i produttori ritirarono, per ragioni di sensibilità, il film dagli schermi, ed esso riapparirà dopo vari decenni, restando fino alle proiezioni odierne un’opera sconvolgente e molto bella.
I due film di Frankenheimer fanno parte di quel sottogenere o filone che in Italia fu chiamato di “fantapolitica”. Vi rientravano opere come Advise and Consent (Tempesta su Washington, 1962) di Otto Preminger, probabilmente il massimo capolavoro, e film riferiti alla minaccia atomica, che dalla grande fantascienza anni ’50 di Jack Arnold & C., e dalla grande metafora noir di Robert Aldrich divennero “fantapolitica” con On the Beach (L’ultima spiaggia, 1959) di Stanley Kramer, fino ai due film Columbia girati nel 1963 e usciti nel 1964, Dr. Strangelove (Il dottor Stranamore) di Stanley Kubrick (e anche qui uno dei finali girati fu scartato per ragioni di sensibilità verso la famiglia Kennedy) e Fail-Safe (A prova di errore) di Sidney Lumet.
Il genere si estingue dopo l’assassinio forse perché la realtà aveva superato la fantasia. Ma il cinema rimane centrale nell’episodio di Dallas, e il film amatoriale di Abraham Zapruder che testimonia, con precisione e non ricercata emozione, di quanto avvenuto resterà uno dei documenti più alti della forza rivelatrice del cinema: al punto da ispirare uno dei più bei testi teorici di Pier Paolo Pasolini, Discorso sul piano-sequenza (1969, poi raccolto in Empirismo eretico).
Il cinema, insieme alla fotografia di cui si espongono alcuni esempi, documenta anche il lutto che segue, e la coreografata emozione dei funerali. Ma su ciò torneremo al quarto piano dell’esposizione.
La collezione di materiali del ricco e articolato Fondo Kennedy della Cineteca del Friuli è stata iniziata a Gemona dai giovanissimi Piera Patat e Livio Jacob, e le prime tracce rimastene nel Fondo sono i ritagli e le prime pagine dei giornali all’indomani dell’assassinio. Piera, che da poco aveva perso il padre, sente il bisogno di scrivere a Caroline (che il 27 novembre avrebbe compiuto 6 anni) per partecipare al suo lutto per la morte del padre. Le arriverà in risposta il biglietto di ringraziamento che qui si espone.
La ricerca della verità: rapporto Warren e suoi critici
La cosa più sbagliata sarebbe non tener conto del fatto che l’America e il mondo hanno ancora bisogno di conoscere la verità su quanto avvenuto. Temere che questo significhi abbandonarsi a un cospirazionismo, diventato quasi pratica di setta e genere in rete, sarebbe davvero triste.

Il Rapporto Warren, coi suoi 27 volumi qui esposti nella sua prima edizione, sembra imporre con la sua mole stessa la certezza che tutto è stato indagato e chiarito. Il gesto con cui Lyndon B. Johnson ne riceve in mano dalla commissione un volume, sottolineandone il peso, è il segno agli americani che quanto doveva essere fatto nella ricerca della verità era ora compiuto.
Tuttavia i ricercatori che hanno letto il Rapporto hanno scoperto molte incongruenze. Citiamo qui i due principali, esponendone i volumi nell’edizione italiana: si tratta dei due magistrati e scrittori dai cui testi sono tratti anche alcuni film di indagine critica.
Mark Lane ha collaborato a due opere cinematografiche fondamentali: Rush to Judgement (1967) che come tutti i film di Emile de Antonio è un documentario che non impone verità precostituite ma lascia allo spettatore l’interpretazione dei materiali e delle testimonianze montate; e Executive Action (Azione esecutiva, 1973) di David Miller, sceneggiato da Dalton Trumbo, il primo film di finzione sull’assassinio, prodotto tra il generale ostracismo da Edward Lewis, che giù produsse Sette giorni a maggio, e in entrambi l’attore liberal Burt Lancaster veste i panni di un generale golpista.

Ma l’America del 1973 non aveva ancora elaborato il lutto e il film cadde nel vuoto. Sarà invece un grande successo e riaprirà la ricerca della verità (ma con un feroce attacco del presidente Gerald Ford che fece parte della commissione Warren) il JFK (JFK – Un caso ancora aperto, 1991) di Oliver Stone, ispirato ai volumi dell’altro magistrato ricercatore, Jim Garrison.
CIA, FBI
L’amministrazione Kennedy era convinta che l’agenzia investigativa federale, l’FBI, e quella di intelligence internazionale, la CIA, dovessero mantenere una dirigenza in continuità, e dunque non esposta alle nomine a ogni cambio di presidenza. Gli interlocutori rimasero quindi J. Edgar Hoover, che aveva creato l’FBI negli anni ’30, e Allen Dulles che già dirigeva la CIA. Tuttavia i rapporti con entrambi furono ripetutamente conflittuali. Si trattò di fatto di due poteri paralleli nella società statunitense e nella gestione delle relazioni internazionali.

Sul direttore a vita dell’FBI è particolarmente importante il film di Larry Cohen The Private Files of J. Edgar Hoover (1977), mentre Dulles non pare avere lo stesso appeal di personaggio, e la sua figura si sovrappone al suo ruolo. Curiosamente della commissione Warren farà parte il solo Dulles, pur trattandosi a rigore di un’indagine federale e non internazionale.
Bob Kennedy
I due volumi in mostra sono edizioni italiane, una coeva alla sua campagna elettorale e alla sua uccisione del 6 giugno 1968, pochi mesi dopo quella di Martin Luther King; e l’altra tra le tante con cui si torna fino ad oggi sulla sua figura, unendola spesso a quella del fratello. Essi evidenziano come anche fuori dagli Stati Uniti l’azione di questi due personaggi fosse stata percepita come un forte elemento di novità, e la loro uccisione come la fine di una speranza.