Allo specchio dell’era Kennedy
Secondo piano – Gli Stati Uniti nel mondo
“Siamo tutti mortali”: la lapidaria conclusione della frase probabilmente più bella dei discorsi di JFK, che infatti abbiamo posto in exergo alla mostra, è il segno più evidente di un’inquietudine che percorre il suo rapporto coi problemi di politica internazionale. Dove l’arte retorica assume un livello alto, non di mera tecnica della comunicazione ma di pensiero morale che cerca il rapporto dell’uomo con l’uomo, paradossalmente anche nell’incontro con la folla. Ed è perciò particolarmente tragico che John Kennedy, come Martin Luther King e Robert Kennedy che si pongono su questa stessa linea, abbia incontrato nella folla la propria morte.

Pur non essendo noto un progetto di film rosselliniano su JFK, è probabile che gli sia balenato tra i capitoli della sua cine-enciclopedia negli anni in cui girava alla Rice University per il suo progetto di film sulla ricerca scientifica; allora però il figlio Renzo lo attrasse su un film in qualche modo convergente, La forza e la ragione, lo splendido film-intervista con Salvador Allende che di lì a poco sarebbe stato vittima di un colpo di stato con l’intervento di una CIA ormai senza briglie da parte della presidenza americana. Ma è soprattutto il film coevo realizzato da Rossellini per le Nazioni Unite, A Question of People, a riprendere il rapporto con una popolazione mondiale che nel pensiero di JFK si delineava come il vero orizzonte in cui gli Stati Uniti dovevano operare.
Troveremo in mostra alcuni punti geopolitici in cui fu significativo il ripensamento da parte di JFK rispetto al ruolo di potenza mondiale degli USA. Le esemplari mappe della rivista Limes evidenziano soprattutto la divisione dell’Europa con la cortina di ferro, e le conseguenze a cui si arriva nel mondo odierno con la guerra in Ucraina. JFK era certamente fortemente coinvolto dalla realtà di Berlino divisa dal muro come luogo-simbolo in cui ribadire certi valori cercando tuttavia soluzioni pacifiche. E non è irrilevante che già nel 1952 egli abbia viaggiato in Europa in due luoghi di confine che sono i nostri, Trieste e Gorizia.


Si percepisce tuttavia in JFK un tendenziale superamento dell’atlantismo e dell’alleanza asiatica parallela alla NATO, la SEATO, avvicinandosi maggiormente alla specificità di ciascun paese: anche la sua linea pragmatica (come la definisce Emile de Antonio) sul Vietnam parte da ciò, pur tardando a comprendere che l’alleato prescelto, il cattolico Diem, anziché costruire mediazioni, avrebbe accentuato conflitti non solo verso il Nord, ma anche in casa, verso la popolazione buddista.
Nel Vietnam, che si era liberato dal colonialismo francese, ma anche in Africa dove nascono negli anni ’60 nuovi stati indipendenti, JFK tende a cercare mediazioni che non sempre avrà il tempo di trovare. Egli sottolinea spesso l’urgenza di sottrarre potenziali alleati al dinamismo dell’Unione Sovietica, ma a partire da questa contrapposizione nasce per esempio un’attenzione reale verso quelle che si chiamarono allora le “rivoluzioni arabe”, e probabilmente un tema divenuto fino a questi giorni di cronica gravità come il conflitto irrisolto tra Israele e Palestina poteva avere altri sviluppi se la scelta delle alleanze non avesse accentuato contrapposizioni.
Non esiste, se non come genere letterario, una storia diversa da quella realmente svoltasi, ma cogliere i momenti in cui essa ancora s’interrogava su quali fossero le direzioni giuste fa capire che quanto è avvenuto non era inevitabile. È uno dei motivi per cui all’epoca della presidenza Kennedy si continuerà a guardare come a qualcosa che ci riguarda.
Odore di terra romanza
Laura Canali, cartografa di Limes – Rivista Italiana di geopolitica, 2024

„Una geopoesia non è come una mappa di Limes che spiega dinamiche e segue un ragionamento geopolitico, una geopoesia è come un richiamo, una sollecitazione della memoria, uno stimolo a vedere il mondo attraverso i sentimenti. Vorrebbe essere una porta magica da attraversare, una suggestione, un sentiero appena intravisto.„
Laura Canali era consapevole del fatto che condensare in un’unica opera quel “compendio dell’universo” di nievana memoria che è il Friuli Venezia Giulia non sarebbe stata una sfida facile ma sapeva anche che avrebbe dovuto abbandonare i confini del “suo” mondo per perdersi e ritrovarsi completamente nella terra che si accingeva a esplorare. E così ha fatto. Ha intrapreso un viaggio “avventuroso e intimo” tra i paesaggi montani di Forni di Sopra, per poi scendere verso Gemona, la pianura friulana, raggiungendo Aquileia.
In questi territori il terremoto del 1976 echeggia nella memoria collettiva, mentre le cicatrici delle guerre del passato si fondono con la bellezza selvaggia dei fiumi e delle montagne. Dolore e speranza danno vita a un dialogo tra l’umanità e la natura aspra delle Alpi. Il Tagliamento, con il suo corso irregolare, si è rivelato un simbolo potente di vita e di cambiamento, una guida attraverso le profondità della storia e della geografia.
„C’è come qualcosa che scorre, come il Tagliamento, ma è dentro le persone. Lo senti, lo percepisci a ogni incontro. Ogni essere umano deve conservare e consegnare la storia agli altri, non solo ai figli di questa terra ma a tutti e anche a me.
Questa è la linea che ho scelto per la mia geopoesia, un’anima forte, una colonna vertebrale fatta di ciottoli bianchi.„
I segni dei conflitti passati si stagliano anche sui confini di Gorizia e Nova Gorica, testimoni mutevoli ora di divisione, ora di riunificazione. Nei vicoli stretti e nei cimiteri antichi risuonano le voci degli eroi, dei patrioti, dei vinti e dei liberati in un abbraccio senza tempo.
„Camminare in Friuli Venezia Giulia, incontrare le persone, a caso, ho sentito che volevano comunicare, raccontare, nessuno sarebbe andato via, nessuna smania di fare, andare, ma stare condividendo.
I gesti, le abitudini, il racconto, le persone normali, questo è il messaggio potente che il Friuli Venezia Giulia ci trasmette sobriamente, senza strillare, solo a chi si avvicina, solo a chi vuole vedere oltre, solo a chi vuole ascoltare.„
E così, attraverso le voci udite, il colore delle chiese, i profili dei monti e le geometrie delle città ha iniziato a prendere forma questa mappa geopoetica la quale, intrecciando versi e paesaggi e unendo il passato al presente, la terra al cielo, l’amore alla memoria ha donato all’autrice uno sguardo nuovo su un mondo in costante mutamento.
La minaccia atomica

Il tema atomica evidenzia come con la presidenza JFK giungano al pettine nella loro forma più acuta tutti i nodi irrisolti della storia che precede. Sono in realtà gli anni tra fine della seconda guerra mondiale e dopoguerra a far letteralmente esplodere l’arma senza precedenti della guerra atomica. Ma così come solo negli anni ’60 è nato da parte di Hannah Arendt il concetto di banalità del male, pare che esso possa spiegare non solo la persecuzione ebraica ma anche certi felici abbandoni alla scelta atomica. E finché anche l’URSS non dispone dell’arma (per scelta di scienziati pacifisti e idealisti condannati a morte come i Rosenberg) traspare un senso di potenza euforica. La figura del presidente Truman è significativa per la sua convinta tranquillità di coscienza. Truman, col suo hobby di mettersi a suonare il pianoforte (e continuerà a farlo anche ospite alla Casa Bianca dei Kennedy), rivela ancora una volta come lo stesso hobby da parte di Leo McCarey fosse un po’ l’inverso, la consapevolezza che la serenità è sempre accerchiata dai fuoricampo della minaccia e della morte, che non sono un altro mondo rispetto a quello che viviamo.

La presunta sicurezza che il possesso dell’arma atomica da parte di entrambi gli schieramenti fosse rassicurante sarà messa più volte in dubbio nella storia. E il momento più acuto sarà con la crisi di Cuba, che più d’uno (in primis la CIA) avrebbe volentieri portato fino in fondo (“come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba” per dirla con Kubrick), ma che incontrò un “fattore umano” orientato diversamente, sia in Kennedy che in Chruščev (all’epoca si traslitterava Krusciov, anche per simmetria giornalistica con l’altro K).
Soy Cuba

Magari con la sensazione di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma JFK risponde passo per passo (“pragmaticamente” direbbe ancora de Antonio) a una situazione già creatasi per scelte politicamente poco lungimiranti. Oggi il Person to Person realizzato nel 1959 da Murrow e Schaffner, in cui lo studio CBS si collega con la casa di Fidel Castro, ci dà la certezza che questi cercava una convivenza pacifica con gli USA e persino escludeva che a Cuba s’imponesse il comunismo. Qualche mese dopo, incontrando nella sua unica visita americana il vicepresidente Nixon, Fidel si è visto abbandonato all’unico abbraccio possibile, quello sovietico. Gli Stati Uniti hanno dunque operato in senso inverso rispetto alla ricerca di mediazioni che sarà di JFK. Certo, il discorso di Castro aveva la sua dose di tatticismo, al suo fianco c’era Ernesto “Che” Guevara che credeva nella rivoluzione mondiale permanente, e che infatti nel suo ultimo bellissimo discorso in Hasta la victoria siempre di Santiago Alvarez ricorda che Kennedy prima della morte assicurò che non ci sarebbe stata un’altra Cuba, cioè un altro paese latinoamericano non più alleato degli USA. E infatti la “dottrina Monroe” si muta per JFK nella strategia dell’Alleanza per il Progresso da offrire ai latinoamericani come terza via democratica tra il comunismo e i regimi dittatoriali amici su cui gli USA tolleravano le violazioni della democrazia che rimproveravano agli avversari.

Ancora una volta le scelte di JFK appaiono più interrogative che conclusive.
Si è voluto esporre in mostra il bel soggettone con Omar Sharif nelle vesti del Che, nell’unico film americano dedicato all’avversario poco dopo l’uccisione: film diretto dall’ottimo Richard Fleischer, capace di momenti di libertà di sguardo ma alfine soccombente all’allinearsi con la politica ufficiale (fino a sentirsi in obbligo di dichiarate che “la CIA non c’entrava”).
Cuore di tenebra

Uno degli episodi meno considerati della presidenza JFK è il suo atteggiamento verso i nuovi paesi della decolonizzazione africana. Kennedy è stato probabilmente l’unico presidente americano ad aver interiorizzato il rifiuto degli imperi coloniali europei che era stato di Woodrow Wilson e che nelle presidenze F.D. Roosevelt sarebbe stato sostenuto soprattutto da Henry A. Wallace (figura perdente della storia americana giustamente trattata con attenzione da Oliver Stone). Kennedy appare propenso a trattare alla pari i paesi appena nati, con lui certo anche il movimento dei non-allineati che la potenza americana disprezzò sarebbe stato trattato con pari dignità.
All’interno di questo atteggiamento le sue scelte verso la crisi congolese dono davvero di valore assoluto. Presidente era ancora Eisenhower ma Kennedy era stato eletto e attendeva la cerimonia del giuramento del 20 gennaio 1961. Poco prima il combattente per l’indipendenza del Congo dal Belgio, ora primo ministro democraticamente eletto, Patrice Lumumba, viene arrestato da oppositori militari e secessionisti del Katanga, manovrati dal Belgio con la complicità della CIA. Il 17 gennaio 1961 Lumumba con due suoi ministri viene ucciso dopo atroci torture. Tre giorni prima della nomina ufficiale a presidente di JFK, che vanamente cercò di salvare la vita del legittimo premier del Congo attraverso l’ambasciata americana. In un momento in cui gli USA consideravano Lumumba amico dell’Unione Sovietico, e pertanto comunista.
Si è voluto qui segnalare l’importanza di questa scelta di Kennedy non ancora presidente ma già guidato da un impegno morale oltre che da regole di legittimità degli interlocutori anche internazionali.
Davvero giustamente il cuore di tenebra conradiano, centrato sul fiume del Congo, diventerà la metafora della guerra nel Vietnam per Apocalypse Now di Coppola.
E fino a oggi la Repubblica Democratica del Congo (rinata dal dittatoriale Zaire di Mobutu, che guidò dalla tenebra l’uccisione di Lumumba come poi Compaoré farà con Thomas Sankara nel Burkina Faso) appare travolta da abusi verso una piena democrazia.
Va riconosciuto al cinema italiano di aver colto la drammaticità delle vicende congolesi, non solo col cinismo di Africa addio di Jacopetti e Prosperi ma anche con la sensibilità di un piccolo film in contemporanea come Congo vivo (1962) di Giuseppe Bennati con Jean Seberg e soprattutto col capolavoro di Valerio Zurlini Seduto alla sua destra (1968), che rilegge in chiave evangelica il sacrificio di Lumumba.
Why Vietnam?
Il leader vietnamita Ho Chi-minh, che qui vediamo anche in una bella immagine giovanile, era prima di tutto un patriota che, combattendo per l’indipendenza dall’impero francese, volle contattare il presidente americano Wilson credendo nei suoi punti per un nuovo mondo dopo la prima guerra mondiale; oggi sappiamo che i suoi messaggi non vennero mai fatti arrivare a Wilson. Diventerà quindi agli occhi degli USA uno dei tanti nemici lasciati all’orbita sovietica.

L’atteggiamento di Kennedy verso il Vietnam è certo disseminato di esitazioni, ma per lui il Vietnam del Nord era un paese avverso da compensare col sostegno allo stato amico del Sud, e probabilmente lui come molti credevano ci si trovasse di fronte a una Corea-bis dove non restava che difendere un confine di fronte alla volontà del Nord di unificare il paese.
Kennedy ritiene dunque che l’uomo giusto con cui allearsi sia il sudvietnamita Diem, con la cui famiglia quella dei Kennedy, anche all’insegna del condiviso cattolicesimo, stringe un’amicizia.
Pur diventando poi sempre più consapevole della corruzione del potere dei Diem, non vi vede alternative e, pochi giorni prima della propria uccisione, il 2 novembre 1963, resta scioccato dal putsch che elimina con violenza i fratelli Diem.
Per quanto di segno politico molto diverso, gli assassini di Lumumba pochi giorni prima che Kennedy assumesse la presidenza e dei Diem pochi giorni prima che la perdesse con la vita indicano in lui due punti fermi: la scelta legalitaria è quello più di cultura democratica, ma a esso si aggiunge l’orrore per i gesti violenti, e questa è prima di tutto una scelta morale e di pietas umanitaria.
Non può che restare aperto il dubbio su cosa Kennedy avrebbe fatto nel Vietnam al posto di Johnson. Si può essere però abbastanza certi che avrebbe cercato di capire cosa succedeva prima di decidere che l’America non aveva che la via di imporsi.
Why Vietnam? si chiederà invece Johnson in un documentario propagandistico del 1965, rivolgendosi ai “my fellow Americans” (difficile invece trovare filmati con Johnson che si rivolgano anche ai non americani). Si tratta di un documentario che rasenta il lapsus perché mentre vi si ricordano gli impegni con gli alleati “di tre presidenti americani” (Ike, JFK, LBJ) le azioni di quello intermedio non sono mai trattate, e ci siappiglia al parallelismo col patto di Monaco che non seppe fermare Hitler. Un film collettivo francese come Loin du Vietnam contraddirà nel 1967 questo confronto sostenendo che il parallelismo più giusto per il Vietnam sarebbe quello con la guerra civile spagnola. E un patriota americano come Emile de Antonio si spingerà a confrontare nel 1968 con In the Year of the Pig la guerra nel Vietnam con quelle d’indipendenza e civile americane.
Il sipario strappato
Dopo la sconfitta del sogno totalitario nazista di rendere il mondo uno, l’idea di un mondo diviso in due ha dominato, finita la breve parentesi di collaborazione tra gli eterogenei vincitori, l’intero dopoguerra, e per molti da ambo le parti si trattava di un’idea rassicurante, che non si curava di vedere quanto la contraddiceva. Anche l’America si cullava in questa rappresentazione che la poneva al centro della parte giusta.

La cultura politica di JFK non contraddice questa idea, e certo alcuni suoi assiomi come l’estraneità del comunismo allo spirito americano erano indubbi.
Resta però sorprendente come egli spostasse l’angolo visuale per poter interpretare i fatti. Da giovanissimo, alla vigilia della seconda guerra mondiale, aveva cercato di guardare al mondo dal punto di vista dell’Inghilterra.
Da alcune testimonianze la sua attività senatoriale non era particolarmente brillante. Ma forse già allora egli vedeva nella figura del presidente il senso da dare all’America, e quella figura partiva da una visione internazionale come la sola da cui inquadrare anche l’America. In un senso inverso a un Theodore Roosevelt per cui era l’America che inquadrava il mondo.
Quando JFK arriva al celebre discorso berlinese quell’“Ich bin ein Berliner” non è solo una trovata per farsi applaudire, è un vero mettersi nei panni altrui. Altre volte egli concordava con Jackie interventi in spagnolo, o in polacco, e forse se ne scopriranno in qualche altra lingua.

Il discorso di Kennedy a Berlino è chiaramente bipolare e anticomunista. Ma parallelamente a quel discorso c’erano i contatti personali col primo ministro sovietico e i suoi rappresentanti, così come in parallelo al discorso complice con gli esuli anticastristi c’erano altre aperture. Questo, si dirà, lo fanno tutti i politici, è qualcosa che si può chiamare anche mentire. Chissà perché con JFK ci appare con un altro segno, uno spostamento degli angoli visuali per poter scegliere l’inquadratura più giusta.
Di film su Berlino città divisa ce ne sono tanti, e spesso notevoli. Ma nessuno come quello di Giorgio Bianchi ci sembra la chiosa più adatta al tema qui trattato. Va a onore di Federico Fellini aver inserito Totò e Peppino divisi a Berlino tra i suoi dieci film preferiti in assoluto. E anche oggi quelle immagini di processo sono superiori a tanti film drammatici su cui sono calcate, e quel muro che spunta all’improvviso (dal genio di Giorgio Giovannini, scenografo anche di Mario Bava) è l’immagine più giusta della “installazione” che fu il muro di Berlino, e la sua demolizione del 1989 appare qui già certa.
A seguire il percorso dell’esposizione si vedranno anche le foto della visita di JFK a Trieste e Gorizia nel 1952, ed egli sembra cercare, come nei viaggi in Inghilterra e in Asia, il senso di ciò che stava avvenendo, in due città condizionate dall’immagine di confine.
Ruggero Orlando nel suo servizio televisivo posto in testa alla maratona del viaggio in Italia di JFK spiega con molta pertinenza la contraddizione del concetto di frontiera nella lingua italiana e in quella americana, nella quale indica piuttosto un nuovo orizzonte.
Kennedy Night Mov(i)es
Italia 1963-1998, 349′
Le riprese televisive del viaggio di John F. Kennedy in Italia nel 1963, ritrovate ed edite da Ciro Giorgini per una notte di Fuori orario nel 1998, riviste e riproposte da Paolo Luciani nel 2023.
Della visita di JFK in Italia, che lo porta a incontrare il presidente Antonio Segni e altri esponenti politici italiani, nonché in Vaticano il neoeletto pontefice Paolo VI, la RAI aveva ripreso l’intero svolgimento, sia della prima tappa a Roma che di quella conclusiva a Napoli. Come sempre più raramente succede negli archivi televisivi, dopo essere stati usati all’epoca nei collegamenti in diretta e soprattutto nei montaggi dei telegiornali, i girati si sono integralmente conservati in pellicola. Un grande ricercatore e curatore di programmi televisivi (nonché autore di alcuni documentari tra cui uno sull’Irlanda di John Ford), Ciro Giorgini, aveva ritrovato negli anni ’90 alcuni girati televisivi integrali tra cui quelli dei viaggi di Paolo VI in India e Terrasanta, e questo di Kennedy in Italia. Ha fatto per ciascuno la scelta più rispettosa: conservare l’integralità del girato compresi i tempi di attesa, quelli in cui “non succede niente“ e la macchina da presa vaga su esterni o interni nell’attesa dell’ospite. E questi tempi di attesa si rivelano oggi particolarmente affascinanti. In testa al girato Giorgini ha aggiunto un coevo servizio giornalistico di Ruggero Orlando che è una delle migliori sintesi sulla presidenza Kennedy fino a quel momento.
In mostra si propone integralmente l’edizione recentemente ritrasmessa, con la sola scelta tecnica di dividerla in due parti compatibili con gli orari divisi tra fascia mattutina e pomeridiana della mostra. Si ringraziano Fuori orario e Teche RAI per la collaborazione.
L’Italia e la ricezione dei libri di JFK
Oltre al documento del viaggio in Italia e a una complementare documentazione fotografica, riguardante anche gli incontri di presidenti americani e loro rappresentanti coi papi (compreso l’incontro di Robert Kennedy con Giovanni XXIII nel febbraio 1962), l’esposizione si sofferma su un tema inedito, che rivela molto di come la figura di JFK e la sua presidenza siano state interpretate nel nostro Paese.

Si espongono infatti tutte le edizioni italiane anni ’60 dei volumi di JFK e di un volume sul padre Joseph, aggiungendovi una posteriore antologia di discorsi di Kennedy.
Il dato sorprendente è che tutti i quattro volumi pubblicati nel periodo della presidenza (e il primo anzi quando egli era ancora candidato e l’altro poco dopo la morte) sono stati editi dalle Edizioni del Borghese, casa editrice di estrema destra di cui, a prescindere dalle posizioni, va segnalata l’alta cura tipografica, varata da Leo Longanesi, che oltre che sceneggiatore per Mario Camerini e regista di un notevole film incompiuto, è stato negli anni ’30 fondatore di una delle riviste più innovative, Omnibus, mal sopportata e poi soppressa dal regime, per poi diventare creatore di collane per l’editore Rizzoli, già avvalentisi di sovracopertine e grafica sue, e poi della sua casa editrice Longanesi, che egli successivamente abbandona per avvicinarsi alla rivista Il Borghese e alla sua omonima casa editrice. E se del Longanesi editore sono geniali le scelte di pubblicare Il deserto dei tartari di Buzzati e Tempo di uccidere di Flaiano, alle Edizioni del Borghese vanno riconosciute scelte sorprendenti come il volume di tutto il teatro di Aldo De Benedetti, scrittore e sceneggiatore emarginato dalle leggi razziali.
L’attenzione del Borghese verso JFK e i Kennedy è davvero notevole: oltre al libro sul padre Joseph si pubblicano in prima edizione italiana nel 1960 i Ritratti del coraggio ottimamente tradotti da Henry Furst e con un’affascinante sovracopertina di Longanesi, nonché una prefazione “estorta” al già presidente Luigi Einaudi, omessa infatti nella seconda edizione. Segue nel 1964 la prima edizione italiana di Perché l’Inghilterra dormì. Come a dire che entrambi i volumi pubblicati in vita da Kennedy arrivano in Italia attraverso un editore di destra, che singolarmente sul risvolto della prima edizione dei Ritratti presenta l’autore come “candidato cattolico alla presidenza degli Stati Uniti”, e quindi contro quella che in campagna elettorale era la preoccupazione di JFK: “io sono il candidato democratico alla presidenza, che nella sua vita privata è un cattolico”.
L’attenzione del Borghese verso Kennedy, oltre che a una voluta duttilità di linea editoriale, rientra piuttosto nell’ammirazione verso il padre. Significativamente invece la riproposta della figura kennediana in anni e decenni successivi sarà caratterizzata da iniziative editoriali di sinistra: oltre all’attenzione di l’Unità diretta da Walter Veltroni (che ripubblica anche il libro di Jim Garrison), si segnala l’antologia di scritti di JFK La nuova frontiera pubblicata nel 1997 nella collana “I grandi discorsi” dall’editore Manifestolibri.
Nota alla documentazione su JFK e Trieste
Sui viaggi di JFK nella nostra Regione è presente una consistente documentazione fotografica ai Civici Musei di Storia ed Arte del Comune di Trieste, che ringraziamo per avercela qui messa a disposizione. Essa riguarda la tappa del viaggio a Trieste e gli incontri con gli esponenti politici locali. Ulteriore documentazione si è reperita alla JFK Library.
Di particolare interesse è la corrispondenza con Mario Franzil, nato a Udine nel 1909 e che all’epoca del viaggio di JFK è a Trieste consigliere comunale DC, per diventarvi sindaco dal 1958 al 1966, succedendo al conservatore Gianni Bartoli e inaugurando l’epoca della maggioranza morotea nella DC triestina, anticipando così (in una città ancora molto divisa da contrapposizioni etnico-politiche) le aperture di centro sinistra nazionali. L’epoca della presidenza JFK, che segna anche una minor interferenza americana sulle alleanze di governo italiane, rientra quindi nel più esteso periodo in cui a Trieste fu sindaco Franzil, ed è significativo che il consigliere Kennedy in visita a Trieste incontrasse come interlocutore principale il futuro primo cittadino, ulteriore sottolineatura di come la presidenza degli Stati Uniti sia per JFK il ruolo in cui si realizza un’esperienza politica di lunga durata.
L’Esigenza “T”
Il Trattato di pace stipulato con la Jugoslavia al termine della II Guerra Mondiale aveva stabilito la creazione del “Territorio libero di Trieste” diviso in due zone: la A (Duino, Aurisina, Trieste, Muggia) amministrata dagli angloamericani; la B (Capodistria, Pirano, Isola, Umago, Buie e Cittanova) amministrata dagli jugoslavi. Nel 1948 Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna avevano sottoscritto una “Dichiarazione tripartita” nella quale era prevista la restituzione all’Italia di tutto il Territorio libero di Trieste.
Nell’ottobre 1953, gli angloamericani annunciarono il ritiro delle loro truppe dalla “Zona A” e l’insediamento dell’esercito italiano. Il Maresciallo Tito, che puntava ad annettere alla Jugoslavia tutto il Territorio libero, reagì dichiarando che l’arrivo alla frontiera dei soldati italiani era da considerarsi un’aggressione, alla quale le truppe jugoslave avrebbero risposto con l’occupazione di Trieste.
Ebbe così inizio quella che fu denominata “Esigenza T” (Trieste). Il 29 agosto 1953 il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito ricevette dal Ministro della Difesa l’ordine di attuare i primi provvedimenti alla frontiera con l’impiego delle forze di copertura stanziali del V Corpo d’Armata.
A metà del mese di ottobre si ebbe un’ulteriore attivazione del dispositivo militare con lo schieramento massiccio di reparti del V Corpo d’Armata suddivisi lungo tutta la linea di frontiera (Brigate alpine “Julia”′ e “Cadore”, Divisioni fanteria “Mantova” e “Folgore”, Divisione corazzata “Ariete”). A loro supporto furono fatte affluire anche la Divisione fanteria “Cremona” e la Brigata alpina “Tridentina”. Completavano il dispositivo Reggimenti e altre unità di artiglieria, genio e trasmissioni del V Corpo d’Armata, oltre a tutto il supporto logistico necessario ad alimentare i reparti schierati.
I reparti furono completati agli organici di guerra con il richiamo di personale dal congedo (oltre 12.000 uomini), trattenendo alle armi il primo scaglione della classe 1931 ed aggregando personale specializzato da unità e scuole di formazione di tutta la penisola.
Le predisposizioni non interessarono solo lo schieramento dei reparti, ma compresero anche i lavori di fortificazione campale, l’impiego delle unità pionieri d’arresto per le operazioni di “interruzione” e posa dei campi minati, oltre all’attivazione dei reparti da posizione a presidio della fortificazione permanente da poco realizzata sulla linea del Tagliamento.
Simultaneamente venne predisposto il piano Delta, che avrebbe portato a un’azione di sorpresa per garantire l’occupazione della zona A nel caso in cui Tito desse pratica esecuzione all’annessione della zona B.
Per la sua attuazione fu previsto l’impiego della Divisione “Trieste”, di stanza in Emilia-Romagna, rinforzata da quattro battaglioni di fanteria provenienti dall’Italia meridionale. L’Esigenza terminò ai primi di dicembre 1953, ed entro il 20 del mese tutti i reparti erano rientrati nelle loro sedi stanziali.
Trieste tornò a far parte dell’Italia nel 1954, mentre le dispute territoriali proseguirono fino al 1974, quando con l’Accordo di Osimo, la Zona B del Territorio Libero venne definitivamente assegnata alla Jugoslavia.
Odissea nello spazio
“Scegliamo di andare sulla Luna. Scegliamo di andare sulla Luna… Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e fare le altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili; perché quell’obiettivo servirà a organizzare e misurare il meglio delle nostre energie e capacità, perché quella sfida è una sfida che siamo disposti ad accettare, una che non siamo disposti a rimandare e una che intendiamo vincere, e anche le altre.”

Quando JFK arriva alla presidenza deve dare una prova di poter mantenere una delle promesse della campagna elettorale: invertire l’immagine propagandistica in cui l’Unione Sovietica era apparsa vincente, al primo posto nella gara spaziale. E naturalmente si sottolineerà che questo vantaggio era stato acquisito non rispettando le regole di comunicazione del mondo libero: annunciare anticipatamente le imprese spaziali, col rischio di possibili riuscite mancate, mentre “i russi” le annunciavano solo dopo che esse riuscivano.
Un film per molti versi prigioniero delle contrapposizioni anni ’50, seppur edito solo nel 1963, La rabbia con le due parti in conflitto di Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi, appare oggi di grande forza proprio in ciò che va oltre i partiti presi ideologici dei due autori. L’episodio di Pasolini, che ha delle punte nei segmenti con Giovanni XXIII e Marilyn Monroe, frana proprio sull’umanesimo delle imprese spaziali sovietiche. E Guareschi, banale su Kennedy (mentre in Pasolini, figurarsi, c’è solo Eisenhower) e sterile nella nostalgia coloniale, ha la massima punta nell’attacco agli esperimenti sovietici sugli animali. Anche se con appena accennato un riferimento alle povere Laika e altri probabili militi ignoti nella conquista socialista dello spazio.

Bisogna concludere che John Kennedy, e lo sottolineerà il dovuto ribattezzamento di Cape Canaveral col suo nome, ha fatto i passi giusti per vincere la gara spaziale coi sovietici. Le immagini in mostra, col loro colore da fantascienza divenuta reale, lo sottolineano col giusto fascino estetico. E mentre da parte sovietica i costi della ricerca spaziale faranno fare passi indietro (ma va soprattutto reso onore ad Amadeo Bordiga che irrise la violazione della crosta terrestre come unica dimensione del comunismo), gli americani toccheranno per primi la Luna.
Alla competizione sportiva va però aggiunto un merito superiore nell’azione di JFK: rifiutare l’idea dello spazio come territorio per la competizione nucleare. C’è chi lo considera il gesto che gli costerà inimicizie fatali.