Allo specchio dell’era Kennedy

Terzo piano – Arti e costume

La presidenza JFK è stata uno dei momenti più alti del rapporto tra politica e dimensione estetica. Probabilmente è anzi il più alto in un’accezione democratica, essendo invece l’“estetizzazione della politica” una pratica dei regimi totalitari che Walter Benjamin, forse il maggior filosofo politico novecentesco con Simone Weil, ha rifiutato contrapponendovi l’esigenza di una “politicizzazione dell’estetica”.

Indubbiamente l’esigenza dei Kennedy di vivere in un mondo di bellezza è anche un prolungamento dello stile di vita altoborghese del loro universo familiare. Ma arrivando al potere ed estendendo tale stile alla dimora presidenziale, essi lo democratizzano, ne offrono la fruizione ai cittadini. Con “i Kennedy” s’intende sottolineare il ruolo particolarmente attivo di Jackie, che non solo nella vita mondana è un’icona di stile, venerata come tale dai media, ma promuove un restyling della Casa Bianca per contenervi tutta la storia americana. Il bellissimo “film” di Franklin Schaffner A Tour of the White House , trasmesso dalla CBS il 14 febbraio 1962 con punte di ascolto tra le più alte della storia della televisione, ci appare oggi un vero monumento, perfetto anche nella sua sceneggiatura essendone Jackie la protagonista assoluta e intervenendo Jack solo alla fine quasi come un ospite che fruisce felicemente di quell’“oikos”. Da Jackie apprendiamo che altri presidenti, e in particolare Theodore Roosevelt, avevano voluto intervenire su quella dimora per renderla la quintessenza della storia americana, ma il restyling di Jackie appare il più organico. Il fatto che quel luogo si sia dovuto abbandonare così prematuramente, dà a posteriori un tono malinconico alle immagini. 

Le foto in mostra documentano l’invito a fruire quel luogo rivolto a vari artisti, e tra le immagini ci colpisce la presenza di altre due massime icone di bellezza femminile, Maria Callas e Marilyn Monroe. E tra i massimi artisti d’epoca vi transitò Andy Warhol, che a tutte e tre le icone citate diede immagini di sacrale presenza.

La Casa Bianca come luogo-sintesi dell’America fa oggi pensare al lavoro dei documentaristi dello spazio americano, Ken Burns nel mainstream PBS e, su un piano più sregolato rivolto a microcosmi centrifughi, Frederick Wiseman, in particolare col suo capolavoro City Hall sulla Boston post kennediana.

Ma per Jack e Jackie la Casa Bianca era anche un punto di fuga, sia verso le dimore private che verso i viaggi in America e nel mondo. Si documenta in mostra la passione per il viaggio di lei in particolare, che si testimonia anche in bellissime edizioni in volume.

L’immagine fotografica, col suo fermare il tempo, più ancora che l’immagine in movimento del cinema, appare l’arte per eccellenza dell’era Kennedy. Che ahimè non si è fermata in questa autocontemplazione condivisa col mondo, ma si è brutalmente sospesa nell’incompiutezza.

La mitologia che Jackie e Bob hanno coltivato, quella di Camelot, appare tutto sommato fondata, e non vanitosa: semmai una “vanitas” nel senso più profondo. Anche la versione cinematografica di Joshua Logan del musical Camelot è intrisa di malinconia sincera. Appaiono perciò futilmente postmoderne riletture come Jackie di Pablo Larrain, che tra l’altro fa ricalcare a Natalie Portman la visita alla Casa Bianca.

Bob Dylan

Vari artisti giungono a definire John F. Kennedy “un amico”. Non si è trattato probabilmente di un rapporto intimo, ma tuttavia di qualcosa che andava oltre al rapporto di stima o a mere frequentazioni in occasione di eventi artistici. Né va trascurato che spesso si trattò di liberal o addirittura radical come Emile de Antonio. 

Bob Dylan fu profondamente turbato dall’assassinio di Kennedy. Lo racconta il suo autorevole primo biografo Anthony Scaduto. Lo confermano “The Kennedy Poems”, componimenti poetici rivolti da Dylan alla sig.ra Kennedy e al Presidente e appartenenti alla serie di scritti databili alla fine del 1963 ma riemersi solo nel 1989 quando vennero messi all’asta come “Margolis & Moss Manuscripts”. Lo conferma il controverso discorso – in cui a un certo punto Dylan sembra identificarsi con Lee Harvey Oswald – tenuto tra i fischi il 13 dicembre 1963 durante la cerimonia di consegna del Tom Paine Award conferito all’artista dall’Emergency Civil Liberties Committee (ECLC) per il suo impegno nei diritti civili. Per spiegare il senso delle sue affermazioni egli invierà al direttore dell’ECLC una lunga lettera in versi. Lo conferma ancora la sosta che verso la metà di febbraio del 1964 Dylan, diretto a Denver per un concerto, volle fare a Dallas per visitare la Dealey Plaza.

Nessuna delle poesie della collezione “Margolis & Moss” diventerà una canzone, eccetto alcuni versi ripresi in Chimes of Freedom (1964). Ma i sentimenti, le emozioni suscitate dai tragici fatti di Dallas continueranno a scorrere come un fiume carsico nell’opera di Dylan fino a dar vita nel 2020 alla sua canzone più lunga, Murder Most Foul, summa enciclopedica dell’assassinio, intrisa di un pathos profondo.

I testi poetici qui proposti comprendono anche He Was a Friend of Mine, un brano tradizionale di musica folk in cui si lamenta la perdita di un amico. Bob Dylan riarrangiò la ballata con l’intenzione di pubblicarla nel suo primo album (1962), ma finendo con l’escluderla dalla scaletta. Nel 1965 i Byrds, che avevano raggiunto la notorietà con una brillante cover della canzone di Dylan Mr. Tambourine Man, registrarono per il loro secondo album, Turn! Turn! Turn!, una nuova versione di He Was a Friend of Mine con un nuovo arrangiamento e un testo ampiamente rivisitato, in omaggio a Kennedy, dal leader della band Jim (Roger) McGuinn, che in un’intervista ricordava: “Scrissi la canzone la notte stessa in cui John F. Kennedy fu assassinato”. 

The Byrds

Era un mio amico
Era un mio amico
Ucciso senza uno scopo
Né una ragione né un senso

Era un mio amico
Era nella città di Dallas
Era nella città di Dallas

Dalla finestra di un sesto piano
Un cecchino gli ha sparato
Lui è morto nella città di Dallas
Non ha mai saputo il mio nome
Non ha mai saputo il mio nome

Pur non avendolo mai incontrato
Lo conoscevo lo stesso
Oh lui era un mio amico
Leader di una nazione per un tempo così prezioso

Lui era un mio amico

 Robert Frost

The Gift Outright 

Pubblicata per la prima volta nel 1942, ma forse scritta nel 1936, la poesia The Gift Outright di Robert Frost (26.03.1874 – 29.01.1963) venne declamata a memoria dal suo celebre autore durante la cerimonia d’insediamento di John Kennedy alla presidenza il 20 gennaio 1961. Era la prima volta che un poeta veniva invitato a recitare i propri versi nel giorno del giuramento presidenziale (pronunciato da JFK davanti al presidente della Corte Suprema Earl Warren). Per l’occasione, Frost aveva scritto una nuova composizione, Dedication, successivamente rinominata For John F. Kennedy His Inauguration. Ma avvicinatosi al podio riuscì a leggere solo poche righe: l’abbagliante luce del sole riflessa dalla neve (il pomeriggio precedente aveva imperversato su Washington una bufera poi detta “the Kennedy inauguration snowstorm”) impediva al quasi ottantasettenne “grand old man” di vedere quel che c’era scritto sui fogli che teneva in mano. Inutili furono i tentativi di assisterlo anche da parte del vicepresidente Lyndon Johnson. Egli rinunciò a proseguire, annunciando al pubblico che avrebbe recitato una poesia senza bisogno di leggerla (“a poem I can say to you without seeing it”), The Gift Outright appunto.

Significativamente, saranno di Frost, e tra i suoi più belli, i versi che nel 1977 percorrono dall’inizio alla fine il capolavoro post-guerra fredda di Don Siegel Telefon, perla tardiva dell’era Kennedy.

Robert Frost: A Lover’s Quarrel with the World

(USA, 1963) di Shirley Clarke, con Robert Frost, John F. Kennedy, Lyndon B. Johnson; sceneggiatura Robert Hughes, montaggio Charlotte Zwerin, 41′

Nell’ultimo anno di vita di entrambi l’incontro tra l’allora maggior poeta americano e il presidente che lo premia, e questo bellissimo mediometraggio diventa una punta dell’universo estetico dell’era Kennedy. Ma anche una punta politica perché il grande poeta è un convinto membro del partito democratico, e non risparmia critiche di scelte politiche all’altro massimo poeta americano Ezra Pound.

Il film, sceneggiato da un importante scrittore come Robert Hughes, è diretto da una delle massime filmmaker sperimentali americane, Shirley Clarke, che in seguito si radicalizzerà politicamente. Né va trascurato il ruolo da montatrice di Charlotte Zwerin, poi coautrice coi fratelli Maysles di Gimme Shelter, il tragico documento del concerto dei Rolling Stones ad Altamont che insieme alla strage di Bel Air concluse l’utopia degli anni ’60.

Frost legge e improvvisa testi poetici meravigliosi, ma nell’universo di bellezza entrano anche i controcampi di bellissime studentesse in piani d’ascolto. Shirley Clarke si rivela qui, come altrove Dorothy Arzner e Ida Lupino, tra le donne-cineaste capaci di uno sguardo sensuale sul femminile.

La collezione FRIAM – Friuli Arts and Monuments

Custodita dal Comune di Udine presso “Casa Cavazzini – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea”, questa collezione ha preso corpo a seguito del sisma che distrusse Gemona e molti comuni friulani nel 1976, quando oltre 100 artisti americani, tra i più importanti nel panorama dell’arte contemporanea mondiale, donarono un proprio lavoro a favore della popolazione friulana. 

Mario Micossi, originario di Artegna (Udine) ma che da anni poteva contare su una residenza newyorkese, portò in Friuli il messaggio di questa straordinaria e unica azione di solidarietà. Parte di queste opere avrebbe dovuto essere venduta per permettere al Friuli di contare su una cospicua somma necessaria alla ricostruzione. 

Tra i primi promotori dell’iniziativa furono il critico d’arte del New York Times Thomas B. Hess e lo scultore Carl Andre. Tra l’11 e il 27 agosto del 1976 a New York si allestì la mostra “Project Rebuild. An Exhibition to Aid Earthquake-Damaged Udine” per presentare oltre 100 opere che sarebbero poi state trasferite in Friuli, presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Udine. Maria Laura Vinci, moglie dell’ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite, fu tra le capofila del comitato FRIAM (Friuli Arts and Monuments), realtà con sede a New York, e riuscì a coinvolgere nel progetto personalità della vita politica, produttiva ed economica americana con le famiglie Rockefeller e Kennedy in testa. 

L’idea di vendere le opere una volta giunte in Friuli fu presto abbandonata (per la resa economica che avrebbero avuto in un mercato dell’arte non ancora così aggiornato sulle avanguardie internazionali) e i dipinti andarono a costituire uno dei nuclei più corposi dell’attuale collezione d’arte moderna e contemporanea cittadina. Si citano solo alcuni dei nomi degli artisti presenti: Carl Andre, Christo, Donald Judd, Sol Le Witt, Frank Stella, Willem de Kooning.

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