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“Alla mia terra” di Ilaria Tuti

    Quando cresci in un paese ai piedi di una montagna, prima o poi ti capiterà di desiderare di andartene.

    La tua terra, per quanto ospitale, conosciuta e amica, comincerà a sembrarti poco attraente. È successo anche a me quando ero ragazzina.

    Mi sentivo ai margini del mondo, fuori rotta rispetto ai miei coetanei che vivevano in città, e questo mi faceva credere che mi mancasse un’opportunità che a loro invece era stata concessa.

    Guardavo oltre senza vedere il mio punto di partenza. Se solo mi fossi voltata per osservare ciò che avevo alle spalle, mi sarei accorta che avrei dovuto alzare la testa per abbracciare con lo sguardo la vastità delle montagne. E se lo fai, se permetti al tuo corpo di essere un arco teso verso il cielo, allora l’anima segue e si apre alla grandezza da cui proviene.

    Sono dovuta diventare adulta per ricominciare a guardare la mia terra con l’incanto di quando ero bambina e provare un senso di appartenenza così forte da sentirla scorrere nel sangue. Le radici allora hanno potuto affondare dove prima c’era il vuoto e riempirlo di una nuova forza.

    Le stagioni qui non sono nomi e date, ma colori, profumi, brividi, richiami tra le fronde. Sono venti che tormentano per giorni e raggi che scaldano le rocce. Lungo i sentieri il silenzio è tale che puoi sentire il fruscio che fanno le foglie cadendo. Dopo giorni di pioggia, puoi ascoltare il fragore dei nuovi ruscelli tra i sassi del canalone e nelle giornate terse, se sali in cima, vedi il mare luccicare.

    Questa terra è energia primordiale, un’energia che arricchisce e ispira, ma che può anche risvegliarsi un giorno e distruggere.

    È accaduto, ma ci sono esistenze che risorgono dalle macerie come gli eroi delle leggende e, come le leggende, raccontano del superamento di una difficoltà estrema. Il sacrificio per oltrepassare la prova è immenso – si contano i respiri rimasti – ma quel sacrificio, allora, sublima in un ricordo perpetuo, in un simbolo che è monito a non dimenticare.

    La mia terra il sacrificio lo ha pagato la sera del 6 maggio 1976, quando alle 21:00 il Friuli ha tremato per cinquantasette interminabili secondi ed è crollato su se stesso.

    Dei borghi antichi non rimase che polvere e la polvere a Gemona, epicentro del sisma, rimase sospesa nell’aria per giorni.

    Alle urla e alla confusione seguì il silenzio della paura, dei morti, degli animali fuggiti, del vuoto lasciato da interi paesi spazzati via. Il buio calò e chi poteva iniziò a scavare a mani nude per cercare i sopravvissuti. 

    Il nucleo più antico di Gemona era un cumulo di rovine e dalle rovine si è ricominciato. Dove è stato possibile, si è ricostruito dove era, come era, con la tecnica dell’anastilosi: numerando le pietre quando ancora si contavano i morti, ricollocandole dove erano state per secoli. Ricordo ancora i piazzali che vedevo da bambina, ricoperti da quei sassi di cui non capivo l’uso e l’origine. Alcuni numeri sono ancora visibili sotto i portici e sui muri.

    Un uomo disse disperato a un giornalista: «Tornate tra dieci anni e vedrete.»

    Dieci anni dopo la ricostruzione era conclusa. Le pietre sono tornate al loro posto, nelle strade e nel lapidarium che ne celebra la storia antichissima. E quelle pietre ci parlano di noi:

    La stele funeraria romana del I sec D.C., con scolpiti i volti di due sposi. Da duemila anni ci guardano sereni.

    La fontana pubblica “dei ferri”, del 1395. In sei secoli non erogò acqua solo nel 1511 e nel 1976, gli anni dei sismi.

    Il Duomo del Trecento, con il suo organo del 1774, travolto dai crolli della navata destra. C’era chi pensava che ormai le sue canne accartocciate non avrebbero mai più cantato. Si sbagliava.

    La sua campana fusa nel 1423, che porta forgiata nel bronzo la prima terzina dell’ultimo canto della divina Commedia. Un secolo dopo la morte di Dante, qui qualcuno conosceva il suo poema e ha voluto imprimerlo in quanto di più sacro conoscesse, il canto del paese rivolto a Dio.

    I resti della cappella voluta da Sant’Antonio di Padova, che qui giunse e per qualche tempo si fermò. Attorno a quelle pietre è stato edificato il primo santuario antoniano del mondo.

    Pense e Maravée, i telamoni scolpiti nel 1293 da magister Johannes, che da secoli siedono sul sagrato, riflessivi come la mia gente.

    Ora, tutto ha assunto un nuovo significato ai miei occhi. È origine, è storia delle mie genti, è il loro DNA che scorre in me. Vedo anche loro quando mi guardo, non dimentico che quanto ho è un lascito che a mia volta trasmetterò e che devo arricchire. Ogni dettaglio riportato in vita dopo la distruzione è la testimonianza di un popolo che è risorto dalle macerie, che ha voluto tenacemente riavere la sua storia e che, nonostante le gravissime perdite, non ha mai maledettociò che è stato, perché qui abbiamo ben chiaro che in questo mondo siamo solo ospiti.

    Ogni anno, la sera del 6 maggio, a Gemona ricordiamo i nostri morti con un rintocco di campana per ciascuno di loro. Quattrocento battiti di cuori nella notte.

    Il terremoto lo chiamiamo l’orcolat, l’orco che secondo la tradizione popolare vive tra queste montagne, perché ogni fiaba ha il suo cattivo. E la nostra è la fiaba che racconta di una grande rinascita.

    (per gentile concessione de Il Libraio)
    foto di Ilaria Tuti di P. Gurisatti

    Fontana dei Ferri a Gemona
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    Riflessi
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    Pense e Maravee
    Pense e Maravee
    Vecchio portone
    Vecchio portone
    I due sposi - Gemona
    I due sposi – Gemona
    Santuario di Sant'Antonio Gemona
    Santuario di Sant’Antonio Gemona
    Bifore a Gemona
    Bifore a Gemona